Articoli di Giovanni Papini

1926


Io e l'Ebreo
Pubblicato in: Diritti e Doveri, anno VIII, fasc. 5, pp. 54-55
Data: 15 marzo 1926


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   Quattrocent'anni precisi dopo l'arrivo di Cristoforo Colombo a Guanahani andavo a una scuola che prendeva il nome dal nostro Dante. Sembrava, difatti, una filiale rimpiccinita e rincivilita dell'Inferno, quale può immaginarla l'estenuata perversità di un Ufficio Comunale.
   Un casone altissimo color d'uggia, in una strada ch'era un viuzzo commerciale e buio; scale a tromba che non finivano mai e non si sa dove si perdessero -- le ho trovate in certe stampe del Pisanesi — e un tanfo inquieto, a momenti solenne, di programmi, di latrine; e un sistema labirintico di anditi, passaggi, terrazze e corsie come si vedono nelle carceri antiquate e nei sogni di febbre; e in codesto labirinto, che il sole abbandonava ad una mezza tenebra, file di porte color fegato, sempre chiuse, e numerate sulla cimasa come letti d'ospizio.
   Aprendo una qualunque di queste porte s'era in un rettangolo mal rischiarato, tante file di banchi neri facevan fronte ad una cattedra nera, a una lavagna nera, a una poltrona nera.
   In una di codeste classi abitavo io, creatura incolpevole, per parecchie ore del giorno. Il maestro era il più perfetto di quanti ne regnassero in quella casa di pena. Un po' zoppo, un po' cieco, un po' sordo, poteva giustificare le sue infermità colla gotta, con gli occhiali cerchiati d'oro, con la costipazione di testa. Aveva, d'altra parte, tutte le qualità proprie dei maestri di quei tempi, i baffi all'Umberto, il senso del dovere, le risate inopportune, i pugni sulla cattedra, il rispetto alla Monarchia, l'ombrello celeste. Aveva pietà di me fino al punto di non farsi abbastanza amare; che merito aveva la sua debolezza se non proveniva da una forza vinta?
   Ma sopra di lui, divinità' amministrativa e tarchiata, uomo piemontese dal viso quadro e dalla barba di setole, stava il Direttore, capodemonio di quella gelida bolgia, al quale Iddio aveva fatto una bocca atteggiata al disgusto e alla rampogna, una bocca paurosa pur nel silenzio, che pareva creata apposta per il suo destino di soprastante e di giustiziere. Questo cuore che ancora conservo quante mai volte ha martellato nel mio scarno petto di ragazzo povero al suono di quella voce, alla vista di quella faccia, di quella bocca, di quella barba aspra e forte, di quegli accigliamenti di cane!
   Non potrò mai descrivere la sua stanza; vi fui chiamato una volta, non so per qual crimine; v'entrai più sospinto che camminante; col viso vuoto di sangue e cosperso di sudor ghiaccio e non vidi che i mattoni stesi ai miei piedi, mattoni da poco tempo rispalmati di cinavrese.
   In codesta scuola, per tornare al principio, era concessa dalla legge la cosiddetta Istruzione Religiosa. N'eran dispensati gli scolari su domanda scritta dei genitori o di chi ne fa le veci. Mio padre scrisse questa domanda e fui esentato dal catechismo. Due volte la settimana, nelle ore stanche dopo mezzogiorno, s'affacciava alla porta un aitante vecchio, vestito tutto di seta nera e rasato; tutti quanti si alzavano con felice rimbombo di piedi. Ad un cenno del maestro io ed un altro ragazzo si usciva dalla scuola a capobasso, sotto gli sguardi un po' invidiosi e un po' commiseranti di ottanta occhi conosciuti. Il prete non batteva ciglio, il maestro gli cedeva, con dignitosa condiscendenza la poltrona coperta di tela cerata.
   Il mio compagno d'esilio era ebreo e nessuno trovava da ridire sopra la sua diserzione. Molti, anzi, per scusarmi, credevano che fossi anch'io tra i fedeli del Testamento Vecchio: Ma sapevo, invece, d'essere stato battezzato in S. Giovanni e che un Vescovo mi aveva impresso in fronte il segno della Confermazione. Per quale misteriosa condanna ero dunque costretto all'astinenza dalla parola divina? Il mio compagno voleva saperlo.
   — Sei protestante? Sei scomunicato? Il tuo babbo che cosa è?
   Non sapevo rispondere. Alla fine per confonderlo esclamai:
   — Mio padre è ateo.
   — Che cosa vuoi dire ateo?
   — Che non crede a nulla.
   L'olivastro pronipote di Adamo mi fissò con tutta la forza dei suoi umidi occhi neri, poi mi voltò le spalle e non mi chiese nulla, mai più.
   Si passava l'ora girando su e giù per un corridoio tetro, dove da tanti attaccapanni pendevano grembiuli neri, cappotti e berretti. Silenzio di convento, aria di tribunale, puzzo di acque sudice. Il custode, colla sua faccia color ventre di ragno, ci guardava di traverso, come figlioli di razze straniere e sospette. La moglie sua, corazzata da uno scialle nero, ci minacciava colle mani pallide e sottili di levatrice.
   — Non ne volete sapere, voialtri, di Gesù e della Madonna!
   Io mi nascondevo nella parte più tenebrosa a pensare. Perchè mio padre non permetteva che ascoltassi i discorsi del prete? Perchè mia madre mi aveva fatto battezzare? Perchè non bisogna credere a nulla e tutti credono a tutto?
   Certi momenti mi sentivo orgoglioso di quella unicità che faceva di me un essere a parte. E mio padre non era forse un uomo che leggeva libri e sapeva il fatto suo? Ma qualche volta che pena, che rimorso di non essere anch'io li dentro ad imparare quella dottrina talmente profonda che il nostro maestro, pur tanto bravo, non aveva il diritto di insegnare coi suoi semplici abiti di tutti i giorni!
   Non credevo perchè non sapevo bene a cosa gli altri credessero e la mia volontà di credere era ridotta a quei momenti di solitudine, e brevi sussulti di vergogna e di nostalgia nell'ombra cenciosa degli attaccapanni nel polveroso silenzio di quell'ora abbandonata.
   Una volta, ch'era solo, mi arrischiai ad origliare alla porta. La voce bassa del prete sillabava i comandamenti: ad tratto udii: Onora il padre e la madre. E per tutto quel giorno, stupito e perplesso pensai:
   — Perchè dunque mio padre proibisce che io impari ad onorarlo?
   Da La festa.


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